Le bianche lane dei Camaldolesi. Storie di umanità monastica
Recensione del libro
Roberto Fornaciari, La soppressione ecclesiastica dei Cenobiti Camaldolesi. Cause ed effetti dell’azione del cardinale Raffaello Carlo Rossi e dell’abate Emanuele Caronti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, pp. 696, €30,00.
Mette alla prova, il volume poderoso di Roberto Fornaciari, reggiano di nascita, monaco, sacerdote, insegnante e attuale vicepriore del Monastero di Camaldoli. Per la mole – oltre 690 pagine – e per il titolo: La soppressione ecclesiastica dei Cenobiti Camaldolesi. Cause ed effetti dell’azione del cardinale Raffaello Carlo Rossi e dell’abate Emanuele Caronti (Rubbettino, 2019).
Si tratta, del resto, della sua tesi di dottorato in Storia della Chiesa contemporanea discussa nel 2006 presso la pontificia università Gregoriana di Roma e costata anni di lavoro meticoloso e appassionato – se il farsi stesso, quotidiano, della ricerca non entusiasma e cattura, è meglio lasciar perdere – negli archivi ecclesiastici di mezza Italia, che gli ha consentito di raccogliere la documentazione copiosa, varia e in gran parte inedita che compare in appendice al volume.
Una volta posato sul tavolo dunque – meglio ancora se su un leggio -, la tentazione di abbandonare l’impresa per scoraggiamento è uno scoglio da affrontare. Anche perché il primo degli otto capitoli di cui si compone consiste, e non poteva essere altrimenti, in un excursus rigoroso sulle vicende della Congregazione cenobitica – uno dei tre rami di cui si componeva la famiglia dei benedettini camaldolesi – dalla nascita nel 1474 fino al 1907, quando, morto l’abate Gibelli, il processo di crisi che la affligge prenderà via via un’andatura sempre più veloce, rotolando verso la soppressione decretata infine da Pio XI a metà degli anni Trenta.
Ma dopo avere esplicitato il pregresso e il contesto – il secolo Diciannovesimo delle soppressioni e delle restaurazioni, difficilissimo per i benedettini italiani, e poi la Grande guerra e più avanti il fascismo – e la difficoltà costitutiva derivante dalla doppia anima eremitica e cenobitica dei camaldolesi, alla ricerca di un equilibrio destinato a mantenersi perennemente instabile, il racconto di Fornaciari decolla, forse persino suo malgrado.
E se il passo lento è quello delle carte, delle udienze, dei capitoli e dei conciliaboli, il filo è ben teso e non si perde. Perché il calore dell’attenzione che sostiene l’opera non si deve solo allo storico, ma anche all’uomo di Dio che cerca di comprendere le dinamiche di famiglia, della propria famiglia religiosa, e di rendere giustizia ai fratelli travolti dagli eventi, di alcuni dei quali, ormai molto anziani, l’autore ha potuto raccogliere la testimonianza diretta.
Le pagine scorrono, e spalancano un mondo altro solo in apparenza. Alle cui vicende si finisce per appassionarsi.
Ci vengono infatti sciorinate le procedure e le consuetudini vigenti all’interno di un piccolo universo – la Congregazione contava ai primi del ‘900 una quarantina di monaci distribuiti in nove case collocate nell’Italia centrale, fra il Lazio e la Romagna – appartato, tendente all’omeostasi, tribolato dietro le necessità economiche e in affanno riguardo alla formazione dei novizi, eppure dotato di una vitalità non solo inerziale, e capace di soprassalti, di passioni, di scambiarsi spadate epistolari e di ingaggiare battaglie combattute in termini molto formali, ma senza risparmio di colpi.
Se il lievito della spiritualità romualdina sembrava avere perso di efficacia, il livello culturale della Congregazione si era abbassato e la necessità di condurre numerose parrocchie influiva sull’andamento della vita comunitaria, i termini del problema si ridurranno infine a uno scontro distruttivo fra i pochi sostenitori della necessità di mutuare da altre famiglie benedettine una osservanza più rigorosa e i superiori, che non si riveleranno in grado né di comporre il conflitto né di introdurre riforme e correttivi che lo rendessero meno esplosivo.
Sia i capitoli generali che le visite apostoliche approderanno a un nulla di fatto, fino a che – dopo le dimissioni forse intempestive dell’abate nel 1933 – il cardinale Rossi, nominato protettore della Congregazione da Pio XI, e l’abate Caronti, delegato apostolico proveniente dal monastero sublacense di San Giovanni a Parma, di fatto commissario liquidatore, stabiliranno che la famiglia dei cenobiti camaldolesi non poteva più essere conservata perché vivens mortua est.
E così il due luglio 1935 un brusco provvedimento papale decreterà l’unione dei cenobiti con la Congregazione degli eremiti di Toscana e la soppressione di cinque case, mentre i singoli monaci saranno costretti a scegliere fra l’eremitaggio, un’ altra famiglia religiosa oppure il clero secolare.
Questa la trama che incalza, sale di tensione e induce a procedere nella lettura, anche se si tratta di doppiare il resoconto di piani segreti e manovre di sagrestia, verbali di visite apostoliche e soavissime lettere feroci che si prostrano al bacio alla sacra Porpora.
Ma quel che avvince davvero, il valore aggiunto che costituisce, credo, una novità per questo genere di studi, sono gli interni rivelati alla luce del sole. Senza tacere nulla.
Le opere e i giorni dentro alle case monastiche, nei poderi, nei chiostri e nelle celle. La compravendita del bestiame alle fiere, le lampade per la chiesa, l’intangibilità o meno della barba, i vespri solenni, le veglie e l’orario del Mattutino, gli esami di latino e filosofia, le ciarle e i borbottii, le ceste di frutta che vanno e vengono dal cenobio di San Gregorio al Celio, le maniche della cocolla, la cura delle parrocchie per la quale si pone il problema delle fantesche.
E poi le persone chiamate per nome, i monaci e i conversi seguiti lungo tutta la loro lunga, finale stagione burrascosa. L’abate Vincenzo Barbarossa, l’ultimo della Congregazione, con il quale non si può non simpatizzare, malgrado i limiti del suo operato. Il maestro dei novizi Lorenzo Bonetti, capo degli osservanti e promotore della valanga che tutto avrebbe disarticolato e distrutto, intransigente e accecato dallo zelo. E poi tutti gli altri, Forte Torcolini, religioso di naturale piuttosto aspro, i monaci fattori che si occupavano delle aziende agricole, Rodesindo Cappelli, che era gobbo e suonava l’organo, Basilio Bravi che parlava l’inglese ed era stato mandato in una parrocchia del Texas, gli studenti, un piccolo gregge sconcertato, incredulo e poi disperso di botto senza troppi riguardi. La soppressione comunicata all’improvviso, provocando un lago di pianto. Un trauma – è stata una tragedia, una tragedia terribile, afferma a sessantacinque anni di distanza Celestino Angeletti – dal quale diversi confratelli non si sarebbero più ripresi.
Sono le loro piccole storie a fare la storia. La storia di tutti. A renderla più vicina e credibile.
Homines sumus omnes, scrive nel 1912 il rettore di Sant’Anselmo all’abate Piani. Mi ha fatto pensare a quel che ripeteva in tono indulgente mio nonno, che aveva studiato in Seminario. I preti li fanno negli uomini. Anche i monaci.
Laura Artioli