La celebrazione di In Coena Domini dà l’inizio al Triduo pasquale. Inizia con questa liturgia della Cena del Signore lo stesso Venerdì santo (primo giorno del Triduo), in quanto la liturgia privilegia il tempo biblico, che fa iniziare il giorno dalla sera precedente. Inoltre, il racconto dell’ultima Cena fa parte integrante del testo della passione in tutti e quattro i Vangeli. Dalla sera del Venerdì inizierà poi il secondo giorno del Triduo che si potrarrà per tutto il giorno del Sabato santo. Infine, si entra nel terzo giorno, quando nella notte tra il sabato e la domenica si celebra la Veglia pasquale. Quest’ultimo giorno si concluderà con i secondi vespri della domenica di Pasqua.

La riproposizione ciclica, anno dopo anno, del Triduo aiuta la nostra coscienza a restare sveglia e ad approfondire sempre più quel cammino pasquale che coinvolge tutti i giorni della nostra vita, ma che è segnato da tempi favorevoli, segni e simboli efficaci, riflessioni performative.

La lavanda dei piedi

Solo una volta all’anno nell’Eucarestia della Cena del Signore viene proclamato il testo della lavanda dei piedi (Gv 13, 1-20) seguito il più delle volte dalla mimesis stessa di quanto fatto da Gesù. Egli sa che è giunta la sua ora pasquale, chiamata anche ora della consegna, che è venuto dal Padre e a lui sta ritornando, e che “il Padre aveva messo tutto nelle sue mani” (Gv 13,3). Il suo sapere è teologico-sapienziale, è un sapere amante, è il conoscere dell’amore divino e umano che decide di amare fino all’adempimento finale, fino alla consegna totale di sé di fronte all’attacco violento e mortale del principe di questo mondo, che è omicida e “padre della menzogna” (Gv 8, 44). Non si tratta di una lotta, ma di una consegna volontaria e incondizionata a ciò che il vangelo di Luca in sintonia con quello giovanneo denomina “impero delle tenebre” (Lc 22,53).

Che il racconto della lavanda dei piedi venga proposto solamente una volta durante l’anno liturgico, da un lato conferisce a questo testo una particolare rilevanza, dall’altro lascia trapelare la difficoltà che può esserci a confrontarsi con il suo messaggio. La consegna incondizionata di Gesù appare scandalosa, insensatamente remissiva, e ci lascia sgomenti, spaventati, insicuri, rispetto al desiderio molto umano di vedere l’inequivocabile prevalere del bene sul male; che questa consegna passi poi per la via dolorosa e vergognosa della croce rende la sequela di un Maestro così ancora più ardua. Ma è Gesù stesso che ci spiega il significato profondo della sua scelta, attraverso il gesto della lavanda dei piedi: è il servizio umile ai fratelli e alle sorelle che rende ragione della nonviolenza quale via di realizzazione del Regno, poiché mostra come l’amore possa reggere e superare il dolore, la divisione e il tradimento, permettendo al bene mite, durevole, appassionato di prevalere. Gesù è portatore di questa sapienza amante.

Ma c’è di più: “Quando Gesù assume le vesti servili, sembra riconoscere che solo chi fa lo schiavo può ottenere lo scopo che egli si propone. In sostanza, è per l’impossibilità di ottenere il risultato della sua missione presentandosi come operatore potente di segni e come rivelatore che Gesù decide di invertire il suo ruolo e di assumere le funzioni di subordinato. La sua propria condizione subordinata è il primo effetto dell’iniziazione a cui egli sottopone i discepoli. Anch’essi, per poter entrare nel gruppo che egli intende costituire, devono assumere questo modello … La relazione maestro-discepolo prende forma solo con il momentaneo abbassamento e avvicinamento del maestro alla condizione del discepolo. Gesù, così facendo, rifiuta criticamente il rapporto servile che si chiede normalmente ai discepoli. Nel momento in cui il maestro inverte questo rapporto, si può pervenire a una reale compartecipazione con il maestro e dei discepoli fra loro: << anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni e gli altri >> (Gv. 13.14)”.[1]

Ora, la lavanda dei piedi si colloca tra questa conoscenza attiva di amore e il sapere che il principe della menzogna troverà spazio nel cuore di Giuda (Gv 13,2.30). Ma non solo in lui, perché c’è il rischio che lo trovi anche nel rinnegamento di Pietro e nell’abbandono/paura da parte dei suoi discepoli. Alla fine si implementerà soprattutto nella inaspettata alleanza tra i sommi sacerdoti e Pilato: una collusione oscura tra due poteri, quello religioso e quello politico, che non dovrebbero mai andare d’accordo, e che invece trovano sempre il modo di collaborare o intendersi fino ad oggi. Certo, Giuda preso il boccone intinto e offerto da Gesù, uscì nella notte, con una decisione personale che Dio farà rientrare nel suo disegno di redenzione. Ma anche gli altri discepoli sono in pericolo di fronte al potere delle tenebre, per questo Gesù stesso afferma di aver pregato per Pietro.

Gesù prega per Pietro, come prega per ognuno di noi, perché sa che siamo continuamente tentati dalla tenebra, nei nostri limiti e inconsistenze, e pregando ci accompagna nel cammino, affidandoci alla misericordia del Padre. La preghiera di intercessione è una consegna nella consegna, efficace se, come Gesù, ci si mette in gioco nella relazione senza pre-giudizi e presunzioni, in una circolarità di amore fatta di grazia ed energia, che rende possibile la sequela, anche quando diventa esigente.

Di fronte all’odio del mondo e al potere storico delle tenebre, Gesù risponde non con la lotta e la forza come si aspetterebbe Giuda, e come vorrebbe fare anche Pietro, che è pronto – su un moto entusiastico – a morire per il suo Messia, ma egli consegna la sua vita continuando ad amare, in quanto aveva chiarito il senso del suo vangelo nel loghion fondamentale: “Chi ama la propria vita la perde e chi invece odia la propria vita in questo mondo, la custodisce per la vita eterna” (Gv 12,25). Si osservi con attenzione: consegnare la propria vita non in vista di una sofferenza e di un sacrificio prescritti o richiesti da un Dio, da una ideologia, da un re, da un popolo etc., ma solo in forza del desiderio dell’amore stesso: per amare il Padre e per amare gli uomini nelle loro più differenti situazioni esistenziali e storiche. Sappiamo, infatti, che ogni amore vero richiede un diretto e personale impegno, che comporta upomonè (Rm 5,3) (resilienza?) e un continuo dono quotidiano di sé.

Il quarto evangelista – avendo già affrontato il tema dell’Eucarestia in Gv 6 – non ha bisogno di raccontarne l’istituzione, celebrazione già praticata ampiamente nelle chiese cristiane al termine del I secolo. Racconta, invece, la lavanda dei piedi, di cui erano probabilmente a conoscenza poche comunità. L’episodio era di difficile comprensione e con ogni probabilità era tenuto riservato. Se seguiamo il vangelo di Luca si potrebbe ipotizzare che l’azione della lavanda dei piedi sia avvenuta verso la fine della cena, dopo l’Eucarestia stessa, quando i discepoli cominciarono a discutere tra loro su chi fosse il più grande (Lc 22, 24-27). La situazione potrebbe essere stata veramente paradossale. Mentre Gesù pone il rito del pane e del vino, come memoria pasquale della sua vita e della comunione con lui e tra loro, essi si confrontano e si dividono in un’assurda discussione di competizione e di potere. Gesù aveva già insegnato che stava in mezzo a loro come un servo, e chi voleva essere il primo doveva diventare l’ultimo servendo gli altri. Pertanto, rinunciando ad ogni insegnamento (ad un certo momento le parole non servono più, ma diventano determinanti le scelte di vita), è presumibile pensare che egli si tolga il mantello e si presenti davanti a loro come quello schiavo di cui aveva parlato, disposto a lavare i loro piedi. Ma è Giovanni a rendere pubblico l’episodio nel suo vangelo, dandone un’interpretazione del tutto originale. Infatti, il senso giovanneo della pericope sta tutto nella tensione dinamica dell’aver parte con lui, nel prendere consapevolezza di che cosa il Maestro e Signore ha fatto loro, e nel comprendere la beatitudine di lavarsi i piedi reciprocamente, gli uni gli altri. E pare proprio che questa sia la modalità più convincente dell’azione della lavanda dei piedi da farsi nell’assemblea: non tanto lavare in modo mimetico/imitativo dodici piedi, che alla fine non fa vedere la significatività simbolica di quel gesto, quanto il più importante e decisivo lavarsi i piedi gli uni gli altri (il papa o il vescovo o il prete che lava i piedi del laico e viceversa, o il vescovo che lava i piedi di un prete della propria diocesi e viceversa, il marito i piedi della moglie e viceversa, il genitore di un figlio e viceversa, il giovane di un anziano e viceversa, il ricco i piedi del povero e viceversa, l’istruito quelli del meno dotto e viceversa etc.).

La reciprocità nasce dallo sguardo di rispetto e amore nei confronti dell’altro, scevro da proiezioni (negative o anche eccessivamente positive), uno sguardo realistico e spirituale allo stesso tempo, capace di riconoscere la divinità nell’umanità, la dignità nella fragilità, la luce anche nelle tenebre, coscienti dell’interdipendenza che ci lega gli uni agli altri, al punto da desiderare di fare agli altri quanto vorremmo fosse fatto a noi. Ma non si giunge a questo sguardo sugli altri se non si è fatto un cammino profondo di conoscenza di sé, nell’esperienza della misericordia di Dio per i propri limiti. In questo senso la reciprocità è un frutto di maturità sul piano umano e spirituale, a cui Gesù ci invita mostrando nella sua persona questo orizzonte di senso a cui tendere.

Soffermiamoci sui tre temi messi in risalto.

  • Aver parte con lui: vuol dire ricevere tutte le sue parole come rivelazione dell’amore eterno, quelle che lui stesso ha ricevuto dal Padre e che ci ha trasmesso (Gv 15,3); significa rimanere nella sua parola e nel suo amore per condividere fino in fondo la sua missione. Potremo affermare che i discepoli avevano fatto il bagno nella parola e mancava loro solo il lavaggio dei piedi che poi Gesù ha compiuto. Così anche noi abbiamo parte con lui: alla condivisione della parola di rivelazione e alla sua stessa missione. É Is 52.7 che ci annunzia: << Come sono belli i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero che annunzia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il Dio”>>. Giovanni pensa evidentemente alla attualizzazione di tale profezia nella chiesa.

L’accoglienza di ogni Parola come rivelazione d’amore si attua in un cuore umile e grato, che si apre gradualmente alla consapevolezza dell’azione nascosta di Dio nelle trame delle nostre esistenze, assetate di luce e pace.

  • Partecipare alla sua stessa diaconia. Il Maestro e Signore non ha solo compiuto un esempio da imitare. Infatti, la domanda che pone ai discepoli non è: “Sapete che cosa ho fatto?”, ma “Sapete che cosa vi ho fatto?”. In altre parole, Gesù lavando i piedi ha conferito loro il potere della diaconia della sua stessa missione ricevuta dal Padre: di uscire e di andare verso tutti/e annunciando la pasqua del loro Maestro e Signore.

Ci scopriamo con sorpresa “capaci” di offrire quanto gratuitamente ricevuto, avendo fatto esperienza di una predilezione personale di Dio nei nostri confronti, dalla quale prende avvio un processo di condivisione e gratuità.

  • Reciprocità. Nella teologia giovannea c’è sempre la reciprocità: bisogna lavarsi i piedi gli uni gli altri, e poi il comandamento nuovo dell’amarsi gli uni gli altri. Certo il movimento presentato da Gv comincia dall’alto e viene verso il basso, ma non è mai gerarchico, è circolare e comunitario. Il divenire carne del Logos, il suo venire dal Padre non istituisce una gerarchia, ma fa conoscere e comincia l’esperienza comunionale presente nella stessa vita trinitaria Il reciproco lavarsi i piedi vuol affermare che tutti abbiamo la diaconia della missione e la possibilità di annunciare e vivere la pasqua, ma per poter portare agli altri il messaggio pasquale dobbiamo averlo ricevuto e sempre dobbiamo essere disposti a riceverlo da un fratello o da una sorella che ci ha serviti facendoci scoprire ed esperimentare la vita della pasqua del Signore, e poi lavandoci i piedi con umiltà ci ha fatto comprendere che anche noi possiamo portarlo agli altri come un dono da condividere con tutti/e. Credo che ciò sia successo per esempio tra Anania e Saulo, e tra Barnaba e Paolo.

 

La passione della Gloria divina

Il primo giorno del Triduo pasquale – iniziato con la celebrazione della Cena del Signore, dove il rito della cena e la lavanda dei piedi sono azioni significative per aver parte con lui alla sua pasqua, per continuare la sua opera riconoscendo la diaconia della missione di tutti i battezzati, ed infine per imparare ad esercitare sempre la reciprocità dell’annunzio pasquale e del comandamento dell’amore- trova il suo apice di celebrazione nell’ascolto della passione secondo il vangelo di Giovanni e con il rito dell’adorazione della croce gloriosa. La liturgia non lo propone concretamente, ma ci indica un percorso di lettura integrale dei capp. 13-20 di Giovanni durante i tre giorni del Triduo pasquale. Attraverso i discorsi dell’addio (Gv 14-16) si giunge fino alla preghiera della Gloria condivisa (Gv 17).

La proclamazione liturgica, invece, si concentra sul racconto giovanneo della passione di Gesù che trova nella sua morte in croce il punto culminante della rivelazione pasquale (in Gv non abbiamo la notte del Getsemani come nei Vangeli sinottici). Anche per quanto riguarda la liturgia, si dà uno stretto legame tra il testo di Gv e l’azione dell’adorazione della croce. Maria di Betania e Maria di Magdala creano un’incredibile inclusione ermeneutica sulla stessa identità di Gesù: per la prima, egli è lo sposo a cui si presenta con il dono del suo amore rappresentato dal profumo di nardo (l’identità di Gesù come sposo comincia a Cana, prosegue con l’affermazione del Battista che egli è l’amico dello sposo, continua con la samaritana che è senza marito anche se ne ha avuto cinque, etc.); per la seconda, invece, viene tracciato un percorso di fede propriamente giovanneo, che – dopo averlo visto e conosciuto come il Maestro nella storia e averlo seguito fino alla croce e al sepolcro – passa a vederlo come il Vivente e a riconoscerlo come il Signore (<< Ho visto il Signore >> Gv 20,18). E gli altri cosa vedono e conoscono di lui? E cosa vedono di sé stessi? E noi, di noi stessi di fronte a tale passione di amore? I discepoli conoscono la sua messianicità, ma non sanno ancora nulla della sua signoria gloriosa. Sarà lo Spirito a guidarli alla verità della Pasqua. I sommi sacerdoti lo conoscono come un blasfemo (per questo lo condannano nel sinedrio) e un malfattore (così lo presentano a Pilato). Pilato, dapprima, vuole ri-conoscerlo come “re”, e vuole giocare e ironizzare con questo titolo sia con Gesù stesso (ma egli si rifiuta di essere un re terreno), sia con gli stessi sommi sacerdoti che arrivano a preferire Cesare come il loro re, poi, alla fine, con la folla. Ma il gioco diventa tragico perché l’ecce homo, servo sofferente colpito nella carne, ridicolizzato con la corona di spine in testa e il mantello rosso, è totalmente ripudiato, quando è proprio lui il vero re della Gloria di Dio, ma nascosto sotto la coltre dell’umiliazione e della perdita di ogni dignità umana. Un re crocifisso che non è tanto preoccupato di morire, quanto di amare e col suo amore dischiudere relazioni umane rinnovate e situazioni storiche nuove:

  • la madre che troverà un nuovo figlio, il discepolo amato che accogliendo Maria come sua madre si scoprirà fratello di Gesù;
  • il grido, (“ho sete”, “tutto è compiuto”) che diventa promessa e profezia escatologica;
  • il dono del pneuma/spirito che dalla croce viene trasmesso al mondo (non trasmissione di una legge o di una dottrina, di un’istituzione o di un’organizzazione, ma trasmissione della stessa vita divina);
  • l’integrità del suo corpo, a cui non vien spezzato alcun osso, in quanto vero agnello pasquale;
  • il costato trafitto, aperto, dell’ adamo nuovo che attraverso il sangue e l’acqua può generare l’autentica umanità: mescolanza di sangue simbolo della vita di Cristo, e di acqua simbolo dello Spirito.

Di fronte a tutto questo l’azione significativa del credente può essere solo quello di inginocchiarsi e di prostrarsi a terra, sia quando il Crocefisso viene svelato in tre diversi momenti passando attraverso l’assemblea, sia andando a Lui per baciare quel mistero di amore infinito. Anche noi preghiamo con l’antifona che si trova nel Messale: Adoriamo la tua croce, Signore, lodiamo e glorifichiamo la tua santa risurrezione.

Dal legno della croce è venuta la gioia in tutto il mondo.

Portare alla bocca (ad-orare) la croce significa non vederla più solo come un simbolo di sofferenza e ingiustizia, che pure essa rappresenta e su cui possiamo appoggiare legittimamente le nostre esperienze di dolore, ma vuol dire anche andare oltre nella penetrazione del senso delle cose, che ad un certo punto rivelano tutta la loro potenzialità divina, quella potenzialità che si attua pienamente nella resurrezione. Ma il tempo cronologico non rende ragione di questa esperienza, bisogna entrare in un’altra dimensione della realtà: quella della salvezza “già” attuata, nel “non ancora” dell’agonia, con uno sguardo escatologico che è sguardo sul presente, senza fughe in avanti, con una fecondità resa evidente nella novità di relazioni finalmente gratuite.

Il silenzio del Sabato santo

Il silenzio emerge dal sabato santo e la chiesa si impegna a custodirlo per tutto il giorno: Cristo è stato sepolto e ora scende negli inferi. Ci guida il testo di 1Pt 3, 18-19: << Anche Cristo è morto una volta per sempre … per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza agli spiriti che attendevano nella prigione>> (dello Sheol); e anche 1 Pt 4,6: << anche i morti sono stati evangelizzati, cosicché quantunque giudicati come tutti gli uomini nella carne, vivano secondo Dio nello spirito >>. Perché scende laggiù? Per raggiungere tutti anche i morti (giusti e peccatori)… di ieri, di oggi e di domani… Non si tratta di un silenzio devoto. Ma di un silenzio che ci fa stare sul vuoto.

É silenzio di stupore: il Signore della vita è sceso negli inferi.

E’ silenzio di speranza: i morti vivano tutti in Dio.

E’ silenzio di attesa di amore per esperimentare la vita dove si dà la morte.

Vivere questo silenzio come esperienza interiore quotidiana, è un’opportunità da cogliere a partire dal sabato santo della liturgia pasquale. Il silenzio della discesa agli inferi può essere difficile da ascoltare fino in fondo, poiché il silenzio apre e dilata, quasi forzatamente, i confini noti della nostra coscienza immergendoci in una realtà percepita in modo nuovo, sorprendente, ma anche inquietante perché sconosciuta. Cosa incontriamo nei nostri inferi? E quale azione di Dio riconosciamo quando siamo confrontati con l’attesa intrisa di speranza della fede pasquale? Gesù scende agli inferi in nostra compagnia, se glielo permettiamo, per mostrarci a noi stessi e così scoprire Dio in noi, negli altri e nella realtà che ci circonda.

Si accende la luce

E quando nella notte della veglia pasquale nel buio totale si accende la luce del cero, simbolo del risorto, ecco la speranza diventa certezza. L’Exultet è il canto di gioia di tutta la chiesa in questa notte di vita e di libertà, ma sono proprio le letture della veglia a renderci conto dello spessore teologico dell’auto-comunicazione di Dio e della sua presenza nella storia.

La prima notte è quella della creazione del mondo, nella quale contempliamo il passaggio dal caos al cosmos.

O Padre, ammirabile nell’immensità del tuo amore, illumina i figli e le figlie da te redenti perché comprendiamo che, se è grande la continua creazione del mondo, ben più grande, nella pienezza del tempo, è l’opera della nostra redenzione nella pasqua di Cristo Signore.

Poi, si ascolta la “notte” del sacrificio di Isacco, che è risparmiato per l’intervento di Dio.

O Padre, tu moltiplichi in tutta la terra le tue figlie e i tuoi figli, e nel sacramento del battesimo adempi la promessa fatta ad Abramo di renderlo padre di tutte le nazioni, concedi al tuo popolo di vivere pienamente la grazia pasquale della salvezza

La terza notte è quella della liberazione dal faraone e dalla schiavitù.

O Padre, anche ai nostri giorni vediamo risplendere i tuoi antichi prodigi: ciò che hai fatto con la tua mano potente per liberare un solo popolo dall’oppressione del faraone, ora lo compi attraverso l’acqua del battesimo per la salvezza di tutte le genti; concedi che l’umanità intera sia accolta tra i figli e le figlie di Abramo in un solo popolo

Poi seguono quattro testi che ci fanno sostare nella “notte” della pienezza (già attiva ora nella risurrezione di Cristo) quando Dio sarà tutto in tutti:

Is 54, che richiama il legame sponsale;

O Padre, risollevaci con il tuo immenso amore, perché tutti i tuoi figli e tutte le tue figlie siano discepoli del Signore e la Chiesa veda realizzato il disegno universale di salvezza, nel quale i nostri padri hanno fermamente sperato

Is 55, ci presenta il tema dell’alleanza donata a tutti;

O Padre, unica speranza del mondo, porgiamo l’orecchio alla tua parola di vita e veniamo a te per bere acqua, vino e latte, per mangiare cose buone e cibi succulenti, stabilisci anche per noi la tua alleanza eterna

Bar 3, è Dio la vera luce sul nostro cammino;

O Padre, siamo beati con Israele perché ciò che piace a te è da noi conosciuto nella tua legge di vita e di sapienza, fai risplendere la luce pasquale del tuo figlio risorto sul nostro cammino

Ez 36, Dio ci donerà un cuore nuovo e porrà il suo spirito dentro di noi;

O Padre, potenza immutabile e luce che non tramonta, guarda con amore al mirabile sacramento della tua Chiesa e compi nella pace l’opera dell’umana salvezza secondo il tuo disegno eterno: tutto il mondo riconosca e veda che quanto è distrutto si ricostruisce, quanto è invecchiato si rinnova, e tutto ritorna alla sua integrità , per mezzo di Cristo morto e risorto per noi

L’Alleluia accompagnato dal suono delle campane a festa prepara l’annuncio pasquale del vangelo annuale. Non bastano ovviamente la pietra spostata, il sepolcro vuoto, le bende, ci vuole il superamento della paura, la memoria dell’annuncio della passione, il coraggio di andare a cercare il risorto, e ritornare dai fratelli e sorelle portando un annuncio impossibile a credersi.

Ma il “non è qui”, che crea senz’altro un diverso legame rispetto a quello avuto con lui nella storia, non dice ancora appieno la realtà della Pasqua. Bisogna farsi trovare dal Risorto nella di diverse Galilee del mondo di oggi.

Ha ragione Gv a richiamarci il dato sostanziale: che la Pasqua è presente e si attiva quando c’è lo Spirito santo. Per cui è determinante credere nel Risorto, ma per ricevere da lui lo Spirito. É straordinario celebrare ogni anno la Pasqua del Signore, ma essa si compie del tutto solo nella Pentecoste.

Alessandro Barban

[1] A. DESTRO-M. PESCE, La lavanda dei piedi. Segni eversivi di un gesto, EDB, Bologna 2017, 81-82; 85-86